23 Aprile 2020 in Focus di

Lo stato dell’arte sul “danno comunitario”

Introduzione

In questo delicato momento storico, in cui noi tutti siamo alle prese con l’emergenza sanitaria e le conseguenti preoccupazioni economiche, ho voluto condividere delle brevi considerazioni sull’abuso dei contratti a termine nella pubblica amministrazione.
Ancora oggi moltissimi lavoratori svolgono la loro prestazione in via del tutto precaria alle dipendenze della pubblica amministrazione, spesso in favore di strutture e centri nevralgici del nostro Paese; basti pensare, a titolo esemplificativo e non esaustivo, al personale del mondo della ricerca, agli operatori sanitari, ai docenti della scuola pubblica nonché a tutte le innumerevoli categorie di lavoratori non stabilizzati, sebbene fondamentali per il funzionamento dell’apparato pubblico.
L’idea di un breve focus sullo stato dell’arte della tematica in questione, nasce dall’esigenza di divulgare una consapevolezza sugli strumenti esistenti per i lavoratori con contratti a tempo determinato nei ruoli della pubblica amministrazione, nonché per sensibilizzare i lettori sulla questione, di primario rilievo in quanto incidente sul diritto fondamentale al lavoro e di riflesso, non per importanza, sul funzionamento della pubblica amministrazione.

Breve analisi del contenzioso nazionale e comunitario – il danno comunitario

Il fenomeno del precariato nel pubblico impiego ha dato luogo ad un vasto contenzioso nazionale e sovranazionale circa l’abusiva reiterazione di contratti a termine e le eventuali conseguenze in ordine all’illegittima apposizione del termine.
L’art. 97 della Costituzione al quarto comma prevede che: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.
La normativa di settore sul Pubblico Impiego, nello specifico l’art. 36 del d.lgs. 165 del 2001 e sue successive modifiche e integrazioni, così stabilisce:
“ Omissis…
Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro ed il lavoro accessorio….(omissis)
Al fine di combattere gli abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile, entro il 31 dicembre di ogni anno, sulla base di apposite istruzioni fornite con Direttiva del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, le amministrazioni redigono, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, un analitico rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate da trasmettere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, ai nuclei di valutazione o ai servizi di controllo interno di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, nonché alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica che redige una relazione annuale al Parlamento. Al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato.
Le amministrazioni pubbliche comunicano, nell’ambito del rapporto di cui al precedente comma 3, anche le informazioni concernenti l’utilizzo dei lavoratori socialmente utili.
In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. (omissis).
Tuttavia la nuova disciplina del lavoro a tempo determinato, artt. dal 19 al 29 del d.lgs. n. 81 del 2015, ha dettagliato alcuni aspetti in tema di pubblico impiego.
In tale specifico settore, infatti è previsto, in via prioritario il ricorso a graduatorie già vigenti tanto da essere previsto che:
A) Per esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale le amministrazioni sono obbligate ad utilizzare le graduatorie vigenti per concorsi a tempo indeterminato, invece di indire nuove procedure concorsuali a tempo determinato;
B) Le graduatorie dei concorsi a tempo determinato possono essere utilizzate solo per l’assunzione dei vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli idonei.
Inoltre in base alla previsione di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 81 del 2015, la stipulazione di un contratto a termine è consentita per una durata non superiore a 36 mesi, ma il superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo determinato da parte di una persona che ha già avuto un rapporto a termine con l’amministrazione consente di azzerare la durata del contratto precedente al fine del computo massimo dei trentasei mesi.
L’art. 21 del d.lgs. n. 81 del 2015 ammette altresì la proroga solo per i contratti a termine con durata iniziale inferiore ai tre anni alle seguenti condizioni:
1) per cinque volte e comunque senza mai superare una durata massima complessiva di 36 mesi e
2) a fronte dell’esplicito consenso al rinnovo da parte del lavoratore.
Pertanto la proroga del contratto a termine sarà consentita solo nel rispetto delle predette condizioni, dando quindi un primario rilievo al consenso del lavoratore.

L’aspetto centrale della materia riguarda le conseguenze sanzionatorie all’illegittima apposizione del termine, regolate dall’art. 36, co. 5 del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo il quale la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte della pubblica amministrazione, non può comportare la costituzione di rapporti d lavoro a tempo indeterminato con la pubblica amministrazione in virtù della previsione di cui all’art. 97 della Costituzione, ferme tuttavia le ulteriori responsabilità e correlate sanzioni.
Invece di essere un fenomeno di carattere “straordinario” le pubbliche amministrazioni, sia in passato sia attualmente, ricorrono all’utilizzo di tali tipologie contrattuali avvalendosi della prestazione lavorativa del dipendente anche per lo svolgimento di funzioni ordinarie.
Le assunzioni a termine hanno purtroppo costituito un vero e proprio “sistema parallelo” di reclutamento del personale, utilizzato spesso per eludere il principio del concorso pubblico.
Sul tema si sono registrati importanti interventi della Corte Costituzionale, svariate decisioni dei tribunali e corti di merito, nonché di legittimità e, ad oggi, quasi una decina di sentenze della Corte di Giustizia di primario interesse.
Intendo soffermarmi sull’evoluzione giurisprudenziale più recente, ossia sulla pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione del 2016 e sulle sentenze successive a quest’ultima.
La questione sembrava aver raggiunto un definitivo approdo – almeno sotto il profilo interno – con la sentenza delle Sezioni Unite n. 5072 del 15 marzo 2016.
In seguito ai numerosi pronunciamenti della Corte di Giustizia sulla corretta attuazione della direttiva 99/70/CE, art. 5 dell’allegato, soprattutto in merito ai criteri da applicare per quantificare il risarcimento del danno ex art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ossia nel caso di abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, si è reso necessario l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite della Cassazione.
Gli Ermellini – preliminarmente ribadita l’attualità del divieto, già affermata di conversione del rapporto di lavoro illegittimo il rapporto a tempo indeterminato, in ragione della previsione in Costituzione dell’accesso ai ruoli della P.A. solo attraverso un concorso pubblico ex art. 97 Cost., si sono soffermati dapprima su alcuni rilevanti aspetti: la natura del danno (contrattuale o extracontrattuale), il tipo di pregiudizio sofferto (perdita di chance o licenziamento predeterminato ab inizio dalla P.A.) e, ovviamente il riparto dell’onere della prova.
Andiamo in ordine.
Sul primo aspetto la Corte inquadra la fattispecie nell’alveo della responsabilità contrattuale, utilizzando l’art. 1223 c.c. come norma di riferimento di talché ne deriva che il danno risarcibile non è di per sé la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato.
Il danno in questione, infatti, deve riferirsi allo svolgimento di una prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative, in quanto originato dalla perdita di chance.
Al riguardo un passaggio è degno di rilevo, in quanto la Suprema Corte afferma che si tratta sicuramente di una perdita di chance poiché anche nell’ipotesi in cui la p.a. avesse operato legittimamente emanando un bando di concorso, il lavoratore avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore oppure avrebbe potuto trovare un impiego alternativo (pubblico o privato), in ipotesi anche a tempo indeterminato.
Ciò posto la Sentenza va a specificare che il danno in questione non è in re ipsa, elaborando al riguardo la nozione di c.d. “danno comunitario”, seguendo i passi già demarcati dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
In presenza di tale danno il dipendente può limitarsi a provare l’illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze falsamente indicate come straordinarie e temporanee, facendo ampio uso della prova presuntiva ed essendo esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito.
Tuttavia, tale aspetto presuntivo non è automatico, bensì opera solo nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, ai sensi e per gli effetti della clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE.
Ciò premesso, le Sezioni Unite, dopo aver escluso che il danno consista nella perdita del posto di lavoro eliminano subito l’applicazione dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, l’art. 8 l. 15 luglio 1966, n. 604, l’art. 3 d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, quali norme attinenti alla disciplina in materia di licenziamento illegittimo.
Il parametro normativo su cui diversamente deve individuarsi la fonte per la quantificazione è l’art. 32, comma 5, l. 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. “Collegato Lavoro”).
Sebbene l’art. 32 della legge 183 del 2010 riguardi la diversa ipotesi di conversione del contratto a termine nel lavoro privato, diviene, a detta della Suprema Corte, applicabile come parametro di riferimento anche nei confronti della P.A..
In altri termini la medesima indennità risarcitoria, prevista per il rapporto di lavoro in ambito privato, trova cittadinanza nel settore pubblico in caso di illegittima apposizione del termine, tuttavia non accompagnandosi alla sanzione della conversione del rapporto, inapplicabile al settore pubblico.
Ad ogni modo, al fine di elidere sul nascere una disparità di trattamento fra il lavoratore privato (che gode di una tutela più incisiva, ossia trasformazione del rapporto in contratto oltre all’indennità risarcitoria) rispetto al pubblico dipendente, viene previsto che l’indennizzo forfetizzato costituisca uno strumento di agevolazione probatoria, rappresentando l’entità minima ottenibile, potendo altresì dimostrare che le possibilità di lavoro perse abbiano determinato un danno patrimoniale più elevato rispetto ai limiti edittali di cui all’art. 32 della legge 183 del 2010.
Il principio di effettività nel parametrare il quantum indennitario, secondo la Corte di Cassazione, è quindi soddisfatto dalla previsione dell’indennità di cui all’articolo 32, comma 5, della legge n. 183/10, nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, unitamente alla liquidazione del danno derivante dalla perdita di opportunità di lavoro, conseguente alla dimostrazione in via presuntiva della perdita della mera possibilità di conseguire un vantaggio.
In buona sostanza, la Corte di Cassazione con la Sentenza n ° 5072 del 2016 segue la scia delle sentenze comunitarie.
Al riguardo la Corte di Giustizia, in varie pronunce, ha stabilito che:
1) non sussiste alcun obbligo per gli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato;
2) gli Stati membri hanno una loro autonomia procedurale sulla modalità di adozione delle misure “dissuasive” di cui alla clausola n. 5 di cui all’allegato alla direttiva 1999/70/CE. Dette modalità non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna – c.d. principio di equivalenza;
3) è compito del giudice nazionale individuare in concreto, caso per caso, la sanzione adeguata e verificarne la compatibilità con il parametro europeo, stabilendo pertanto un risarcimento che abbia anche una natura dissuasiva.
In sintesi, il principio di effettività è, anche secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, soddisfatto dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183/10 (ora art. 28 del d. lgs. 85 del 2015) della nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità della retribuzione, unitamente alla liquidazione del danno derivante dalla perdita di opportunità di lavoro, conseguente alla sola dimostrazione in via presuntiva della perdita della mera possibilità di conseguire un vantaggio.

Di notevole rilievo anche la Sentenza della Corte Costituzionale, ossia la n. 187 del 20.07.2026.
La Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 3 maggio 1999, n. 124 – Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico -, con riferimento all’art. 117 della Costituzione in relazione alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE.
La Corte Costituzionale, richiamando i principi seguiti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella Sentenza Mascolo (sentenza 26 novembre 2014 resa nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13) così statuisce: “dichiara l’illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino.”
Tale pronuncia è di notevole interesse in quanto svolge una dettagliata analisi della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, auspicando altresì un intervento del legislatore per dissuadere l’uso illegittimo dei contratti a tempo determinato nella P.A.
Al riguardo non va trascurato il d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, nato anche sulla scia dei principi di cui sopra, fra i cui obiettivi vi è proprio quello di ridurre il precariato nella P.A., mediante la stabilizzazione di dipendenti in possesso di almeno tre anni di anzianità di servizio, anche non continuativi negli ultimi otto (a fronte dei 36 mesi continuativi nell’ambito di un quinquennio ai sensi del a. lgs. 151 del 2001), sia ricorrendo a procedure concorsuali riservate, in misura non superiore al cinquanta per cento dei posti disponibili, ai precari della P.A.
Di recente si segnalano anche varie pronunce dei tribunali di merito circa l’applicazione del c.d. danno comunitario, ad esempio Tribunale di Roma, G.U. Dott. De Ioris, n ° 776 del 26.01.2017.
In tal caso, il Tribunale di Roma, nell’aderire alla suddetta pronuncia delle Sezioni Unite del 2016, rigetta la domanda di conversione del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. (nel caso di specie 39 mesi consecutivi nel quinquennio) accogliendo la domanda subordinata di risarcimento del c.d. “danno comunitario”, parametrandolo nel caso di specie in 8 mensilità, nell’ambito del parametro da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12; nella fattispecie la parte ricorrente mediante l’utilizzo di contratti a termine reiterati nel tempo svolgeva a tutti gli effetti attività di tipo ordinaria a vantaggio dell’Ente.

Giurisprudenza di legittimità successiva alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2016.

Di particolare interesse è la Sentenza n ° 16336 del 2017 della Suprema Corte, in quanto ha dettagliato al meglio i principi delle Sezioni Unite del 2016, dando maggior la rilevanza all’ipotesi del consenso del dipendente rispetto alla proroga dei contratti, con i relativi limiti oggettivi.
Il principio di diritto è il seguente:
Il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni”.
Pertanto il consenso del dipendente ha rilevo solo quando:
1) il contratto a tempo determinato abbia avuto una durata iniziale inferiore a tre anni;
2) la proroga può essere ammissibile solo per una volta;
3) la proroga deve riguardare il medesimo contratto a fronte di giustificate ragioni oggettive, evitando quindi che il dipendente sia destinato presso altre strutture o funzioni dell’Ente a fronte della predetta proroga.
Di notevole rilievo è anche la Sentenza n. 7982 del 2018 della Suprema Corte, relativa ad un caso particolare.
La questione riguardava il caso di un dipendente della Regione Autonoma della Val d’Aosta – con contratti a tempo determinato reiterati dal 2000 sino al 2011. In primo grado veniva accolta la domanda risarcitoria del ricorrente alla luce dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, tuttavia con rigetto della domanda principale di assunzione a tempo indeterminato nei ruoli dell’Ente. In secondo grado veniva accolto parzialmente il ricorso in appello della Regione, rideterminando il quantum del risarcimento proprio in ragione dell’evolversi della giurisprudenza comunitaria.
Ricorrevano in Cassazione sia il lavoratore sia la Regione avverso la sentenza di secondo grado, per vari profili di legittimità.
Nello specifico l’Ente territoriale sosteneva il venir meno del diritto risarcitorio in ragione della stabilizzazione del dipendente presso società controllata dalla Regione, a detta di tale Ente, avvenuta grazie all’esperienza maturata in costanza degli anni di lavoro con i contratti a tempo determinato in questione.
Sulla scorta anche di tale aspetto, la Cassazione ha esteso i principi delle SS.UU. del 2016 rigettando le pretese della Regione, così pronunciandosi:
la stabilizzazione, all’esito di una reiterazione abusiva di contratti a termine, ad opera di un ente diverso da quello che ha realizzato l’abuso, ancorché si tratti di società controllate o vigilate dallo stesso, non costituisce misura sanzionatoria equivalente, dovendo trovare comunque applicazione il principio di agevolazione probatoria del danno, quantificato tra un minimo di 2,5 ed un massimo di dodici mensilità, ai sensi dell’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto ”.

Di recente la Cassazione è ritornata sul c.d. “danno comunitario” nei contratti a termine del pubblico impiego con l’ordinanza della sezione lavoro del 04 Febbraio 2019, n. 3189.
La vicenda portata all’attenzione della Suprema Corte è la seguente.
Il giudice di primo grado chiamato a pronunciarsi sull’accertamento della illegittimità dei contratti a tempo determinato stipulati con una comunità montana, aveva condannato, quest’ultima, al risarcimento del danno quantificato in venti mensilità dell’ultima retribuzione percepita. Il giudice d’appello ha escluso che potesse trovare accoglimento la domanda risarcitoria in quanto nel nostro ordinamento è estranea ogni componente punitiva o sanzionatoria e, in ogni caso il danno deve essere allegato e dimostrato dal soggetto che assume di averlo subito.
La cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento a prescindere da ogni prova.
Il principio affermato dalla Cassazione è il seguente:
“in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dal d.lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5 (ora art. 28 d. lgs. 81 del 2015), va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE, sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.”
Ad analoghe considerazioni la Cassazione perviene anche con la Sentenza n. 9115 del 2019 ove viene stabilito che:
“l’accesso mediante concorso all’impiego presso la Pubblica Amministrazione giustifica la scelta del legislatore di ricollegare, alla violazione delle norme imperative, conseguenze solo risarcitorie e patrimoniali in luogo della conversione del rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati. La violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Tale principio, estraneo all’impiego privato, si riferisce a tutte le assunzioni avvenute al di fuori di una procedura concorsuale, operando anche nei confronti dei soggetti che siano risultati solamente idonei in una procedura selettiva ed abbiano, successivamente, stipulato con la P.A. un contratto di lavoro a tempo determinato fuori dei casi consentiti dalla contrattazione collettiva, dovendosi ritenere che l’osservanza del principio sancito dall’art. 97 Cost. sia garantito solo dalla circostanza che l’aspirante abbia vinto il concorso.

Considerazioni conclusive

Sebbene la strada per risolvere la piaga del precariato sia ancora molto lunga e tortuosa, soprattutto per contingenze economiche ed esigenze di bilancio dello Stato, tuttavia non possono non segnalarsi dei piccoli, seppur limitati, miglioramenti.
Al riguardo sicuramente vi è una maggior presa d’atto di parte delle Istituzioni nel cercare di risolvere la problematica, volendo adottare soluzioni già con una nuova serie di concorsi pubblici; già sopra è stato rilevato come il legislatore con il d. lgs. 75 del 2017 abbia raccolto e fatti propri gli orientamenti giurisprudenziali comunitari e nazionali, quantomeno per arginare il fenomeno.
In tale medesima direzione anche la legge 56 del 2019, all’art. 3 ha previsto delle misure per lo scorrimento di graduatorie nonché delle soluzioni programmatiche per le pubbliche amministrazioni tese alla miglior razionalizzazione per rendere più efficiente la p.a.
Soprattutto in ambito sanitario, molte Regioni, ad esempio hanno aumentato concorsi e bandi con riserve per chi, alla data della presentazione della domanda, avesse già superato il termine dei trentasei mesi di rinnovi di contratti a termine nell’ambito del quinquennio.
E’ indubbio l’impulso notevole che in questa direzione è stato fornito dalle pronunce di cui sopra e dall’esegesi fornita dal diritto comunitario.
Ciò nonostante ancora sussistono numerosi aspetti critici.
Sebbene il c.d. “danno comunitario” sia ad oggi l’unico strumento in grado di tutelare i precari, oltre al maggior danno patito, la tutela sembra molto affievolita rispetto all’obiettivo della stabilizzazione del posto di lavoro, come diversamente avviene nel settore privato.
In alcuni casi affrontati dalla giurisprudenza, ad esempio, il dipendente spesso aveva lavorato per moltissimi anni alle dipendenze dell’Ente pubblico e, sinceramente, ridurre il tutto ad un ristoro rimesso nel limite dalle 2,5 sino ad un massimo di 12 mensilità, salvo il maggior danno, risulta in molti casi del tutto incongruo se non un mero “contentino”.
Il limite effettivo è dovuto al disinteresse, almeno ad oggi, da parte del legislatore nel prevedere e codificare una casistica effettiva per tale tipologia risarcitoria, quand’anche prevedendo indici ulteriori indennitari basati sugli anni di servizio effettivamente prestati con contratti a termine al servizio della p.a., aumentando se del caso le maglie di cui all’art. 32 della legge 183 del 2010.
Bisognerebbe altresì elevare, ad avviso dello scrivente, delle forme effettive di maggior tutela anche in relazione ad altre tipologie contrattuali di cui spesso beneficia la pubblica amministrazione.
Basti pensare, ad esempio, alle gare per appalti di servizi con cooperative aggiudicatrici, nel cui ambito è esclusa l’applicabilità dell’art 29 del d. lgs. 276 del 2003 e s.m.i.
Al riguardo la Suprema Corte ha confermato il proprio orientamento, con cui ha stabilito l’esclusione della responsabilità solidale del committente pubblico (di recente, fra le tanti Cass. 30908 del 2018) prevedendo che: “In materia di appalti pubblici, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, non è applicabile alle pubbliche amministrazioni la responsabilità solidale prevista dall’art. 29, comma 2, del richiamato decreto, dovendosi ritenere che l’art. 9 del d.l. n. 76 del 2013, conv. con modif. nella l. n. 99 del 2013, nella parte in cui prevede la inapplicabilità del suddetto articolo 29 ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, non abbia carattere di norma d’interpretazione autentica, dotata di efficacia retroattiva, avendo solo esplicitato, senza innovare il quadro normativo previgente, un precetto già desumibile dal testo originario del richiamato art. 29 e dalle successive integrazioni.”.
Proprio perché la strada è ancora molto lunga ad avviso dello scrivente è auspicabile un intervento organico da parte del legislatore, da una parte, alzando il livello delle tutele perseguendo effettive misure dissuasive del fenomeno dell’abuso dei contratti a termine e, dall’altro, implementando i concorsi pubblici e le assunzioni, sia con gli attuali sistemi di scorrimento delle graduatorie sia indicendo nuovi.
Proprio in questo momento storico ci stiamo rendendo conto dell’importanza di investire nei settori nevralgici dello Stato, quali sanità, istruzione e giustizia, in quanto elementi imprescindibili dello scheletro di qualsivoglia Stato di diritto.
Concludo nell’auspicio che nella fase post emergenziale vi sia la determinazione coraggiosa del legislatore di spingersi in una nuova fase di organizzazione del pubblico impiego per evitare le storture e i pregiudizi del passato sul diritto fondamentale al lavoro.
Lascio al lettore ogni riflessione sul tema, scomodando infine il Mahatma Gandhi, concludendo richiamando una sua celebre frase ossia: “La vera moralità consiste non già nel seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla coraggiosamente”.

Avv. Emanuele Citro

Riferimenti normativi e note bibliografiche

– D. lgs. 165 del 2001 Testo Unico del pubblico Impiego http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/riforma-della-pa/15-03-2017/partecipate-correttivo-al-dlgs-20-giugno-2016-n-116;

– D. lgs. 81 del 2015 Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni https://www.gazzettaufficiale.it;

– Direttiva del Consiglio del 28.06.1999- relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. https://eur-lex.europa.eu;
– Legge n. 183 del 2010 Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro https://www.gazzettaufficiale.it;

– D. lgs. 75 del 25.05.2017 – Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche https://www.gazzettaufficiale.it/

– Legge n. 56 del 2019 – Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo – https://www.gazzettaufficiale.it;

Marco Biasi – La stabilizzazione “indiretta” ed il risarcimento del “danno comunitario” da illecita reiterazione di rapporti di lavoro a termine – Giapichelli, Rivista Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni n. 4 del 2018 pagg. da 101 a 123;

Giuseppe Tango, Maria Teresa Nicotri, La Corte di Giustizia e L’abusiva reiterazione di contratti a termine nel pubblico impiego – MAGISTRATURAINDIPENDENTE.IT: https://www.magistraturaindipendente.it/

Vincenzo De Michele, Sergio Galleano – La Sentenza “Mascolo” della Corte Costituzionale sui precari della Scuola – https://www.cortecostituzionale.it/documenti/file_rivista/27788_2016_187.pdf

Sentenze e provvedimenti giurisdizionali richiamati:

– Sentenza Corte Giustizia dell’Unione Europea “Mascolo” del 26.11.2014 C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13: http://curia.europa.eu/juris/document

– Sentenza Corte Costituzionale: n. 187 del 20.07.2016 https://www.cortecostituzionale.it/

  • Sentenze della Suprema Corte di Cassazione:
    1) SS.UU. n. 5072 del 15.03.2016;
    2) Cass. Lavoro n. 16336 del 03.07.2017;
    3) Cass. Lavoro n. 7982 del 30.03.2018;
    4) Cass. Lavoro n. 30908 del 29.11.2018;
    5) Cass. Lavoro ordinanza n. 3189 del 04.02.2019;
    6) Cass. Lavoro 9115 del 02.04.2019.
  • Sentenza Tribunale di Roma, sez. Lavoro e previdenza sociale n ° 776 del 26.01.2017.
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