I principi del GDPR secondo la prospettiva dei diritti fondamentali
di Avv. Agnese Micozzi
Premessa
Trovo necessario per il mio lavoro come avvocato, ma anche per il mio essere individuo all’interno di una comunità, chiedermi oggi il perché dell’esistenza di certi principi, la loro funzionalità negli Stati e le garanzie che riescono ad offrire.
I principi a cui mi riferisco sono quelli di cui ho acquisito la conoscenza durante gli studi universitari, anche in occasione dell’analisi e dello sviluppo del diritto comunitario e delle attività della Corte di Giustizia: si tratta quindi di quei valori fondanti il nostro ordinamento, che sono dati per basilari per la sua stessa conservazione, come concepita dopo la seconda guerra mondiale, fra cui ad esempio libertà, uguaglianza, legalità, imparzialità.
Da ultimo fra questi la protezione dei dati personali, come dettata dal Regolamento UE 679/2016, anche detto GDPR, che costituisce appunto un diritto fondamentale dell’uomo.
Il fondamento primario dell’ordinamento giuridico, dal punto di vista delle fonti, è costituito dalla Carta costituzionale, da cui si diramano e succedono gerarchicamente le leggi e via di seguito le ulteriori forme di normazione. Discorso diverso nelle fonti ha il diritto dell’Unione Europea, quale ordinamento estraneo alla sovranità nazionale, ma da cui ha tratto la sua forza coattiva e applicativa attraverso il Trattato e le successive integrazioni sottoscritte e recepite dagli Stati membri.
Proprio la Carta impone, prescrive e dichiara regole e principi, per cui svolge una funzione a dir poco necessaria per la vita stessa dell’ordinamento; eppure, mi chiedo quale ne sia la provenienza e giustificazione, sia da un punto di vista ontologico-storico, che con riferimento al percorso di evolutivo del diritto come oggi inteso.
Sul punto trovo utile cominciare una riflessione a partire dal concetto base del diritto, con riferimento al suo correlato, ossia la giustizia, seppur con una doverosa precisazione: in questo scritto non s’intendono rivoluzionare i fondamenti della teoria generale del diritto, né trovare una soluzione al perché del diritto, che luminari e studiosi hanno trattato nei secoli, anzi; essi s’intendono come presupposti per poter procedere alla propria riflessione.
E allora? Per quanto possa risultare vago a questo punto tale articolo, rimane un fatto meritevole di discussione, vale a dire quanto il diritto possa aspirare ad essere giusto e l’incommensurabile capacità e forza dei principi a darne relativa garanzia applicativa, interpretativa e recepimento.
Vediamo con semplicità come, includendo sull’inclusione della privacy fra i diritti fondamentali, quale principio garante della giustizia stessa.
1) Tentativo per una definizione di diritto oggettivo
Il diritto, in senso oggettivo, è inteso come un complesso di regole e norme: tali norme definiscono obblighi, ascrivono poteri, qualificano etc…; riassumendo, è possibile definirle in via sintetica con “A è B” oppure “se A allora B”.
Vi sono tre teorie principali dell’ordinamento a tal proposito: quella normativistica, che s’identifica per sintesi con la dottrina pura del diritto di Kelsen, secondo il quale il diritto doveva assurgere a scienza propria, senza alcun tipo di interferenze dalle scienze sociologiche, politiche etc…..
Il diritto oggettivo costituisce un ordinamento giuridico, secondo Kelsen, ossia un complesso di norme positive che si basano su una norma fondamentale (Grundnorm); dette norme richiamano la struttura “se A allora B- A è B” operando secondo schemi di qualificazione e ascrizione di obblighi e poteri.
La Grundnorm, tuttavia, si scontra con la nota legge di Hume, secondo la quale non è possibile trovare giustificazione al suo essere, un suo fondamento, senza entrare per ciò solo in contraddizione: come può una norma che fonda e giustifica le leggi giustificare a sua volta se stessa?
Segue poi la concezione giusnaturalista, che presuppone un rapporto con la natura e per cui il diritto è dato dai principi di giustizia, riallacciandosi alla natura dell’uomo e delle cose.
Per le concezioni sociologiche invece il diritto nasce in presenza di fatti e quindi di fatti sociali.
Nell’ambito di tali concezioni, di particolare interesse sono gli esponenti del realismo giuridico, che hanno avuto maggiore diffusione negli U.S.A. e che identificano il diritto con le decisioni dei giudici, i quali sono chiamati a ristabilire l’ordine violato.
Solo attraverso tali decisioni esiste il diritto, mai prima.
Infine, è di pregio la teoria istituzionalistica di Santi Romano, che affermava “ubi jus, ibi societas” e viceversa “ubi societas, ibi jus”. Dove c’è una comunità organizzata, ci deve essere per ciò solo un complesso di regole (l’ordinamento giuridico) che ordina e appunto organizza. In particolare, per quella specifica comunità, vi sarà il suo altrettanto specifico ordinamento.
Inoltre, il concetto di diritto deve contenere quello di ordine sociale, al fine di escludere il mero arbitrio o la forza materiale; dunque l’ordine sociale, prima di essere norma, richiama l’idea di organizzazione, per cui si arriva alla conclusione che l’ordinamento sociale è istituzione.
In passatosi è già tentata una sintesi fra queste diverse teorie, in quanto in ognuna di esse è possibile trovare una spiegazione di un aspetto del diritto, come ad es. la definizione e qualificazione di obblighi e poteri per la concezione normativistica, il richiamo ad una comunità organizzata nell’istituzionalistica, la funzione sociale nella sociologica, nonché la funzione predittiva in quella del realismo.
Al tempo stesso nessuna di esse esaurisce per intero la definizione di un diritto oggettivo ed anzi apre a discussioni e riflessioni sull’esistenza del diritto e dell’ordinamento giuridico, come visto sopra riguardo la Grundnorm.
Tali teorie vogliono fondare l’esistenza delle norme, del diritto oggettivo, ma non esauriscono il dibattito sulla loro esistenza e, implicitamente, sulla loro giustizia.
Difatti è spesso automatico associare le leggi alla giustizia, definendole in uno con tale concetto; eppure, al tempo stesso, ci si avvede anche della loro ingiustizia.
L’ingiustizia di una legge appare per un verso come un’antinomia, una contraddizione, se si pensa soprattutto alla dottrina giusnaturalista, che non ne ammetterebbe neanche l’esistenza; per altro verso, l’altra faccia della medaglia porta a riflettere sulle falle che le leggi possono far emergere.
2) Teorie della giustizia
Può dunque il diritto essere ingiusto? Ossia, può definirsi diritto una legge ingiusta?
In questo caso il terreno d’indagine si deve ampliare, cercando di rendere in prospettiva una tematica ancora più ampia e complessa, che va ben al di là della materia del diritto e coinvolge la filosofia, la politica, la storia, etc..
E’ ovviamente una problematica filosofica e politica, oltre che giuridica, discussa da tempo immemore, basti pensare a Platone (ad es. la Repubblica o Le Leggi) con il riferimento all’ideale della giustizia come dottrina dell’anima ovvero ad Aristotele (con l’Etica nicomachea), dove si accosta la giustizia all’ingiustizia e nella valutazione di ciascuna di esse si sviluppa il concetto della prima come uguaglianza.
Sappiamo che il detto aristotelico relativo alla giustizia, per cui a ciascuno spetta il suo, è passibile di interpretazioni difformi, in quanto è un assunto generale sussumibile in teoremi diversi a seconda dei valori che s’intende esprimere; anche per questo motivo la definizione della giustizia costituisce una tematica da sempre irrisolta, o perlomeno risolta nel senso negativo, perché la legge può diventare ingiusta e la storia lo insegna.
Antigone, nella tragedia di Sofocle, esprime la problematica in maniera esemplare, come viene descritto da tutti i filosofi e giuristi che scrivono sul tema, proponendo un superamento della legge contingente a favore della morale: la legge positiva posta da un sovrano contro la legge di natura, che riconosce il diritto di sepoltura ad ogni individuo.
Non è questo il testo in cui è possibile affrontare con esaustività il tema e in ogni caso sarebbe davvero arduo: basti pensare alle teorie di tanti illustri autori, come Rawls, Nozick, Harsanyi e alle loro idee di libertà ed eguaglianza, del liberalismo individualistico e dell’utilitarismo, che hanno influenzato il secolo passato e presente.
Il mio scopo quindi è quello di constatare l’esistenza di un problema, forse “il problema”, utilizzando una prospettiva più pragmatica e circoscritta, non rientrando nello scopo di questo scritto la via filosofica per la definizione della giustizia.
La consapevolezza è che giustizia e ingiustizia convivono, come è sempre stato, tanto da far ammettere che uno dei compiti fondamentali della prima è proprio quello di intervenire in presenza della seconda, al fine di riequilibrare la sproporzione da essa determinata.
Eppure, la giustizia come bilanciamento di interessi contrapposti costituisce di per sé una contraddizione in termini, se pensiamo alla decisione di un giudice: la vittoria di una parte implica la sconfitta dell’altra e quindi la decisione secondo diritto verrà percepita come ingiusta o come immorale dalla parte vinta.
Il rapporto fra morale, giustizia, diritto ed etica è allora stretto, indissolubile, perché le leggi nascono sì dove esiste una comunità organizzata, con l’esigenza di garantire ordine al caos, ma emergono anche in presenza e in funzione dell’esistenza di essere umani, perciò solo soggetti titolari diritti.
Pe questo motivo ci si è chiesti, osservando come il diritto sia immorale o come possa diventarlo, se questo non comporti un conflitto fra diritto e giustizia.
Se dovessimo considerare diritto o giustizia come solamente ciò che la legge afferma essere, potremmo arrivare a giustificare ogni legge positiva, emanata da un’autorità, come del resto è accaduto durante il nazismo e il fascismo.
Se accettassimo una nozione di giustizia “assoluta” abbracceremmo una visione a scapito dell’altra e potremo arrivare ad accettare l’imposizione della prima con violenza sull’altra, magari spinti dal desiderio di soddisfare lo scopo prefissato o semplicemente di eseguire una legge per come è stata disposta.
Anzi, un ordinamento giuridico che si basa sulla violenza può considerarsi tale?
Mi permetto di citare Zagrebelsky sul punto, quando spiega che c’è “un limite finalistico, intrinseco alla legge stessa: la vita pacifica, la convivenza. Se essa lo tradisce, promuovendo discordia e conflitto, è una legge contro la sua stessa natura. La giustizia della legge sta dunque nel rapporto ch’essa istituisce con la convivenza”.
In questo senso il valore della Carta costituzionale è altissimo, elevando la legge all’idea di giustizia ed esprimendo, fra l’altro, principi fondamentali posti a garantire la continuità della forma di governo ivi proclamata e i diritti dell’uomo.
E’ attraverso la Costituzione e gli strumenti da questa previsti che i principi possono svolgere una funzione regolativa e di prevenzione dei conflitti sociali all’interno dell’ordinamento, finanche del conflitto fra diritto e giustizia.
Nel nostro ordinamento, ad esempio, esiste una costituzione scritta, che è frutto di un accordo, per lo più di un compromesso e che è volta al mantenimento della democrazia.
Anche la Costituzione deve trovare la sua giustificazione riguardo la sua esistenza: storicamente, ricolleghiamo la sua nascita alla fine della seconda guerra mondiale, nell’ottica di una ricostruzione del Paese e della ricerca di un ri-equilibrio rispetto agli orrori e alla devastazioni vissute.
La Costituzione risponde quindi ad una esigenza di unità, cui si è teso attraverso il confronto e la discussione delle diverse ideologie degli esponenti dei partiti che hanno partecipato alla sua redazione, per cui, partendo da prospettive distanti fra di loro hanno potuto esprimere principi e leggi condivisibili su larga scala, secondo un’ottica democratica.
E’ stato ribadito più volte, anche dalla Corte Costituzionale, che proprio nella nostra Carta troviamo indicati e garantiti “i principi qualificanti e irrinunciabili dell’assetto costituzionale dello Stato e, quindi, i principi che sovraintendono alla tutela dei diritti fondamentali della persona” (ad es. sentenza Corte Costituzionale n. 238 del 2014).
Lucidamente Norberto Bobbio, nel suo libro l’Età di diritti, affermava che il problema dei diritti fondamentali non è solo quello di riconoscerli (con tutti gli ostacoli a ciò relativi e, secondo l’autore, l’impossibilità a trovare loro un fondamento assoluto) ma soprattutto quello di proteggerli.
Per questo il valore della Costituzione sta nel riconoscere detti diritti, ma anche nel volerli tutelare: si pensi alla forza che essi esprimono, a fronte della funzione assegnata loro dalla Corte Costituzionale nel determinare un certo assetto all’ordinamento costituzionale e pertanto in via assoluta nel condizionare l’ordinamento giuridico generale.
Secondo la Corte, ad esempio, essi non potranno essere stravolti nel loro significato, neanche da leggi di revisione costituzionale, si pensi ad es. il diritto ad una comunicazione libera e segreta (sentenza Corte costituzionale n. 1146/88 e sentenza Corte Costituzionale n. 366/91).
Questa immutabilità intende donare loro stabilità e certezza, nell’intento di assicurarne l’applicazione nel tempo.
Personalmente, trovo che fra tali diritti quelli che ne costituiscono l’espressione più tangibile sono i diritti fondamentali dell’uomo, fungendo da dichiarazioni assertive di un diritto in capo ad una persona umana, di cui quest’ultima è titolare per il solo fatto di esistere.
3) Influenza dei principi all’interno del diritto dell’UE
Gli Stati membri dell’Unione Europea, quali portatori dei principi fondamentali, hanno condotto l’Unione stessa al recepimento di questi ultimi.
Attraverso il lavoro svolto dai suoi componenti, sia a livello di codificazione che a livello giurisprudenziale, così come spinto su istanza dei rappresentanti degli Stati membri, un’evoluzione e un’integrazione ancora più forti rispetto agli accordi iniziali è stata possibile per l’Unione Europea.
Una delle funzioni maggiori svolte dai principi nel diritto europeo è stata di tipo strumentale, influendo sull’applicazione delle norme materiali e quindi su queste ultime anche come criteri interpretativi.
Non solo, i principi hanno costituito un parametro di legittimità per gli atti delle istituzioni ed anche per alcuni comportamenti degli Stati membri (ossia quando lo Stati membro deve attuare una norma di diritto comunitario e pertanto la materia rientra nella competenza di quest’ultimo).
Di seguito, un’analisi di una legge europea che ha recepito un diritto dell’uomo in un settore particolare quanto trasversale, la “privacy”.
4) I principi dettati dal Reg. UE 679/2016
Il Reg. UE 679/2016 dichiara apertamente all’art. 1 (e al considerando 1) che il diritto alla protezione dei dati personali costituisce un diritto fondamentale dell’uomo.
La fonte è rinvenuta quindi, a livello europeo, nell’art. 16 Trattato Lisbona e art. 8 Cedu.
Il concetto di diritto alla protezione dei dati personali come diritto umano è a prima vista difficilmente afferrabile; spesso non si comprende il motivo per cui il dato personale abbia un livello pari ad esempio alla libertà personale.
Se si riflette invece sulla sua nozione in confronto alla circolazione dei dati attraverso internet, si può avere un’idea del valore economico e sociale che questo diritto ricopre.
La quantità massiccia dei dati oggi utilizzata per svolgere innumerevoli attività, come adempimenti bancari, burocratici etc… obbliga a riconoscere una adeguato livello di tutela ai soggetti titolari.
In questo caso e ancora una volta, si torna al concetto di giustizia come equilibrio e al suo rapporto viscerale con la realtà sociale da cui si origina: dal caos si cerca di ristabilire un ordine e si legifera in materia.
Il concetto negli ultimi anni è stato plasmato con riservatezza, con privacy, poi definito come protezione dei dati personali, sulla base dei progressi sociali e delle istanze sociali sviluppatisi negli anni; oggi si concentra l’analisi del suo strumento di tutela sul GDPR (che sta per general data protection regulation, ossia regolamento generale sulla protezione dei dati), avendo quest’ultimo innovato moltissimo la materia.
Esso si identifica come diritto di un interessato a tutelare i suoi dati, a verificare le modalità con cui viene gestito, comunicato, conservato e a riconoscere il diritto di acconsentire o meno alla sua raccolta o ancora a richiederne l’oblio a certe condizioni.
L’architettura sviluppata nel regolamento costituisce un’arguta espressione di finezza giuridica: i diritti si ancorano contro la prevenzione degli abusi e i doveri vengono intesi come responsabilità, ponendo l’accento non solo sul ruolo delle istituzioni, ma anche sulla centralità degli individui.
L’idea è che a fronte di ogni diritto fondamentale non sussiste solo un dovere di astensione da parte dello Stato e degli altri individui, affinché si possa garantire il suo godimento, come libertà negativa; in maniera ancora più profonda, accanto al diritto c’è il dovere positivo dell’altra parte di assicurarne il godimento, attraverso il suo riconoscimento e la consapevolezza della sua esistenza, con il compimento di azioni coerenti.
Non è un tema nuovo quello della responsabilizzazione, se si pensa all’iniziativa per la Dichiarazione universale delle responsabilità dell’uomo (InterAct Council), dove appunto si chiarisce che per garantire i diritti fondamentali, anche e soprattutto alle generazioni future, bisogna agire ed effettuare scelte orientate eticamente ad assicurare il godimento in maniera duratura degli stessi diritti.
Se pensiamo alle risorse della terra e all’inquinamento, ci rendiamo conto che questa riflessione è assolutamente condivisibile ed anche bisognosa di una realizzazione a dir poco urgente, a partire da ciascuno di noi.
Ad ogni modo, nell’ambito della tutela dei dati personali il regolamento europeo pone il suo accento sulla definizione di “responsabilizzazione-accountability” e quindi sulla necessità per chi raccoglie e tratta dati personali di rendersi edotto del valore di questi ultimi e di agire in via consequenziale, adottando tutte quelle misure che, data la sua consapevolezza, vengono ritenute adeguate alla tutela richiesta dalla legge.
Il regolamento europeo non si limita a questo, ma definisce anche i principi su cui si deve basare ogni trattamento di dati (art. 5): in particolare enuncia quei principi che potremmo definire propri degli Stati membri, ad es. il principio di liceità, correttezza e trasparenza.
La finezza sta quindi nell’accostare i principi ritenuti intangibili dagli ordinamenti degli Stati membri (si veda sopra) come la legalità, l’imparzialità, la dignità umana, alla tutela dei dati personali. In effetti la nozione di protezione del dato personale come diritto fondamentale, in Italia, nasce da quello di dignità, sulla base dell’interpretazione evolutiva dell’art. 2 della Costituzione, differenziandosi così dalla più semplice tutela della riservatezza.
Ed ancora, detti principi vengono enunciati come un tutt’uno nel caso di liceità, correttezza e trasparenza: ciò sta a significare che è possibile trattare i dati personali solamente quando si rispetta la legge, quando si agisce in maniera conforme ad essa e quando tale azione è realizzata in maniera trasparente.
La trasparenza infonde fiducia, poiché rende visibile ogni passaggio del trattamento dei dati, sia agli occhi dell’interessato-titolare del diritto, sia alle Autorità deputate a controllare il rispetto della legge: l’idea della trasparenza accanto a quella di liceità comporta quindi che il rispetto della legge sia fruibile e verificabile dai soggetti di cui sopra in maniera semplice e diretta.
A conferma ed integrazione, quale ulteriore principio dell’art. 5, troviamo la limitazione delle finalità: chi effettua il trattamento dei dati deve, sempre sulla base della sua consapevolezza e responsabilizzazione, scegliere motivazioni e scopi che siano, oltre che legittimi (e quindi potremmo dire per semplicità leciti) anche determinati ed espliciti.
Prima di raccogliere un dato, bisogna essere coscienti dello scopo e renderlo riconoscibile all’interessato cui si sta chiedendo di conoscere il dato; non solo, il regolamento prevede che il trattamento venga scelto per un periodo di tempo determinato, necessario a raggiungere la finalità prefissata e dichiarata, cercando di utilizzare al minimo il dato così raccolto (conservazione e minimizzazione dei dati), adottando misure volte a garantire un’adeguata sicurezza (integrità e riservatezza).
Infine, ultimo principio enunciato all’art. 5 è quello dell’esattezza: i dati raccolti devono essere esatti, privi di errori; se così non è, chi li raccoglie e conserva deve agire senza indugio per la loro rettifica.
L’esattezza in particolare, oltre alla trasparenza, risponde a quel bisogno impellente di coerenza a fronte dell’enorme mole di circolazione dei dati, affinché questi ultimi siano veritieri, puntuali e fedeli, così da poter evitare distorsioni e conseguenze anche gravi.
L’esempio tipico è quello dell’errore compiuto in campo medico riguardo un’analisi o un intervento, quando ad esempio in una cartella clinica si trascrive malamente la necessità di un intervento alla gamba destra invece che alla sinistra.
Il bisogno di rettificare tempestivamente i dati o di aggiornarli mostra la sua utilità anche ad un livello più astratto, in quanto sottolinea l’importanza della ricerca della verità.
In questo caso si esige un riscontro in termini apparenti e oggettivi della verità, basata su un dato, ma di certo non potrà non considerarsi il possibile effetto “educativo” sull’orientamento delle azioni individuali, come del pari vale per la trasparenza.
Per collegarsi a quanto sinora descritto, diritto, giustizia e moralità si avvicinano e si pongono in una relazione causa-effetto reciproca, come dimostrato nel settore della privacy.
Sebbene si sia consapevoli che i principi e la funzione pedagogica che essi svolgono rispecchino la concezione storico-politica del momento, si potrà assentire in linea più generale che essi trovino giustificazione nella moralità, nell’etica e nella stessa realtà sociale, elevandosi assieme e grazie a questi ultimi.
5) Conclusioni
Se riuniamo assieme i principi di liceità, correttezza, trasparenza ed esattezza, ne sviluppiamo le potenzialità come virtù e comprendiamo come nel momento storico in cui viviamo, la risposta al “quid juris” ossia a “quale diritto” inteso come diritto in questo momento, abbia origine dal recepimento delle istanze sociali di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
Tali diritti assumono una funzione e un parametro di tipo orientativo, un lumino nel caos di leggi e regole alle volte in conflitto tra loro e ciò grazie al loro essere concepiti come durevoli nel tempo; ed infatti, la stessa Costituzione ne costituisce chiaro esempio, trasmettendosi alle future generazioni.
La prospettiva di stabilità e certezza che i principi e i diritti fondamentali riescono ad assicurare intende forse bilanciare, assieme agli ulteriori strumenti previsti nella Carta costituzionale e al pluralismo istituzionale proprio dei nostri tempi, i capovolgimenti, i pericoli e i cambiamenti attuabili nell’ordinamento.
Senza che ciò possa ritenersi sufficiente a risolvere la tematica, ad ogni modo irrisolta, della giustizia e dei principi, si può concludere la tematica ricordando che l’uomo è in quanto tale titolare del diritto alla protezione dei dati personali e che attraverso la struttura legislativa prestata dal regolamento europeo potrà sentirsi ancora di più attore di questo rapporto, esercitando i suoi diritti.
Per quanto possa sembrare un’ovvietà, l’esercizio dei diritti può rappresentare un altro tassello fondamentale nella complessa struttura giuridica fin qui rappresentata, in quanto ad ogni diritto corrisponde un dovere anche verso se stessi, oltre che verso gli altri, ossia il dovere di essere consapevoli e responsabili, compiendo azioni da ciò scaturenti.
Ecco, forse la via della consapevolezza potrebbe costituire una forma di contrasto del c.d. velo d’ignoranza immaginato da Rawls, che offusca la vista e le menti dei cittadini rispetto ai principi di libertà ed eguaglianza posti a fondamento della giustizia (intesa come equità) i quali fungono da guida nelle scelte dell’individuo.
Bibliografia:
– I nuovi diritti nella Giurisprudenza Costituzionale di Franco Modugno, Giappichelli Editore, 1995;
– Corso di filosofia del diritto di Gaetano Carcaterra, Bulzoni Editore, 1996;
– Diritti e Costituzione nell’Unione Europa di Gustavo Zagrebelsky, Editori Laterza – II edizione, 2004;
– Appunti per una teoria generale del diritto, la teoria del diritto oggettivo di Franco Modugno, Giappichelli Editore – III edizione, 2004;
– Diritto dell’Unione Europea di Luigi Daniele, Giuffré Editore – III edizione, 2008;
– Diritto allo specchio di Gustavo Zagrebelsky, Giulio Einaudi Editore – I edizione, 2018;
– Il diritto fra immoralità e giustizia di Tommaso Greco in Etica & Politica / Ethics & Politics , XX, 2018, 3, pp. 405-416, ISSN: 1825-5167.
Per un approfondimento delle teorie relative all’ordinamento giuridico e alla giustizia:
– L’ordinamento giuridico, di Santi Romano, Sansoni Firenze, II edizione con aggiunte;
– Una teoria della giustizia, di John Rawls, Feltrinelli Editore, 2002;
– L’età dei diritti, di Norberto Bobbio, Einaudi Editore 2014.